venerdì 2 marzo 2007

LIBERAZIONE O OCCUPAZIONE? Pro e contro la permanenza italiana in Afghanistan

L’espulsione, formalizzata ieri, del senatore Franco Turigliatto da PRC a seguito dell’astensione sul voto sulla politica estera costata la crisi di governo, ripropone le ragioni a favore e contrarie sul tema della guerra in Afghanistan, il cui rifinanziamento, dopo il ritiro del contingente italiano in Iraq, attende di essere sottoposto all’esame delle camere. La missione ISAF (International Security Assistance Force) inizia con l’accordo in sede internazionale dell’Italia del gennaio 2002 cui segue l’approvazione in parlamento alla fine del febbraio dello stesso anno, con il compito di “assistere l’Autorità Interinale Afgana nel mantenere la sicurezza in Kabul e nelle aree limitrofe, così che detta Autorità ed il personale dell’ONU possano operare in un ambiente sicuro“ (cfr. p. 48 doc. su “Missioni/Attività internazionali” del Ministero della Difesa). Alla luce della prossima offensiva primaverile contro i Talebani, oltretutto circoscritte alla zona dove è presente il contingente italiano, è utile discutere delle ragioni a favore e contrarie della permanenza dei soldati. Un primo ordine di considerazioni a favore della permanenza riguarda la situazione in Afghanistan, ritenuta più tranquilla di quella in Iraq e tale che la presenza di stranieri sembra legittimata dagli stessi afghani; i sostenitori del ritiro sarebbero animati da calcoli personali che li spingono a “ritoccare la realtà” afghana in negativo (G. Rampoldi, Repubblica 31/7/2006). Un ritiro dall’Afghanistan comporterebbe quindi una situazione di anarchia, una guerra civile che favorirebbe il ritorno al potere di al-Quaeda. Le ragioni del pacifismo sarebbero quindi “scorciatoie” da “Gandhi da televisione” per venire incontro ai sentimenti dell’elettorato più che soluzioni concrete. Da questo punto di vista l’ospedale di Emergency a Kabul per feriti di guerra sarebbe reo di curare anche i talebani (G. Rampoldi, Repubblica 31/5/2006, si veda anche la risposta di Emergency). La seconda serie di motivazioni contrarie al ritiro mette in luce come i fondamenti della missione ISAF sono diversi rispetto all’invasione iraquena, per cui Afghanistan e Iraq rappresenterebbero “due concezioni opposte della politica internazionale e del ricorso alla forza“: la risoluzione ONU fu infatti anteriore al conflitto, che fu inoltre motivato dalla presenza di un regime, quello talebano, di supporto ai terroristi di al-Quaeda. Il ritiro comporterebbe una “frattura strategica” con le storiche alleanze atlantiche, che non terrebbe conto della “memoria storica e politica” italiana (F. Venturini, Corriere della Sera, 31/5/2006). Restare è segno di coerenza sulla politica estera e credibilità internazionale (E. Scalfari, Repubblica 23/7/2006). Le ragioni a favore insistono quindi sulla diversità della situazione e dei fondamenti tra Iraq e Afghanistan, sottolineando come le ragioni del ritiro, che causerebbe una situazione di anarchia e crisi delle alleanze atlantiche, sarebbero fondate più su calcoli politici e ideologici che reali proposte di soluzione. A queste tesi si può obiettare che: I casi frequenti di bombardamenti indiscriminati sui villaggi e l’esortazione di G. Bush di inviare più truppe (come la Gran Bretagna) per far fronte all’instabilità presente nella maggior parte del paese mostrano come anche l’Afghanistan non sia esente dalla situazione di caos che caratterizza l’Iraq. Questa situazione, unita agli abusi dei soldati, provoca un evidente inimicizia della popolazione afghana nei confronti degli occupanti, accreditata anche dall’ampio numero di miliziani appartenenti alla cosidetta “resistenza afghana”. Le ragioni di chi propone il ritiro, anche se politicamente non disinteressate, si fondano quindi su una situazione incandescente, oltre che sull’opinione, emersa da un sondaggio, del 56% degli italiani che sono favorevoli al ritiro, anche alla luce degli ingenti costi della missione. Per quanto riguarda il fondamento dell’attacco all’Afghanistan, la natura della missione ISAF nel corso degli anni è mutata, passando nel 2003 sotto il comando NATO a sostegno dell’Enduring Freedom statunitense. Si può inoltre fare un piccolo bilancio. Tra gli attentatori dell’11/9/2001 non c’era nessun afghano. Il regime talebano, accusato di fiancheggiare Bin Laden, (che troverebbe rifugio nei monti del Pakistan, alleato statunitense) si finanzia coi proventi dell’oppio. A sei anni dall’invasione dell’Afghanistan, i talebani non sono stati debellati, Bin Laden, che poteva essere catturato con un operazione di intelligence, è ancora libero, l’oppio prospera più di prima. Sul tema della fedeltà alle allenze, è necessario distinguere tra fedeltà e appoggio incondizionato: la maggiore presenza di truppe europee in Afghanistan e basi militari come la base Dal Molin di Vicenza sono funzionali all’Amministrazione Bush per spostare più soldati in Iraq e ai fini della prossima offensiva afghana. Infine non ci si dilungherà sul concetto, discutibile eticamente e giuridicamente, di “esportazione della democrazia”, specie se funzionale agli interessi economici, politici, geostrategici e legati alla ricostruzione statunitensi . I fondamenti della missione, già dall’inizio discutibili, lo sono ora ancora di più; analogo discorso vale per la situazione afghana; diversamente dall’appello alla fedeltà alle storiche alleanze, usato come ragione per la permanenza, si potrebbe quindi fare appello, a favore del ritiro, a un’altra coerenza: quella con il già avvenuto ritiro dei soldati dall’Iraq e con il ripudio costituzionale della guerra (art. 11). Alle missioni di pace servono ospedali, infrastrutture, finanziamenti, che possono essere protetti da un contingente militare: ma ciò ho poco o nulla a che fare con “offensive primaverili”. Il primo passo per una “conversione” della missione ISAF come intervento realmente umanitario e di pace non può che essere quindi il ritiro del contingente italiano, per cui c’è un appello online.

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