lunedì 16 aprile 2007

GRILLETTI FACILI: le stragi nelle scuole USA e la cultura della violenza

La strage odierna in un college statunitense, dopo una sparatoria che ha provocato decine di morti, è solo l’ultimo di episodi simili che periodicamente colpiscono gli Stati Uniti. La strage solleverà un vespaio di opinioni e accuse, utili a riempire poltrone e far drizzare l’audience dei talk show statunitensi, tutto come nel 1999, quando la strage all’istituto Columbine scosse l’immaginario statunitense, legato all’idea della scuola come mezzo di riscatto dalla violenza della sparatorie dei ghetti. Lo stupore che episodi di violenza esplodano così, in un luogo insospettabile e apparentemente senza un avvertimento, fa commettere l’errore di confinare questi casi alla mente deviata di alcuni ragazzini, come se l’ascolto di un certo tipo di musica, le cattive compagnie o qualche disturbo psichico adolescenziale potessero giustificare una strage. La portata di episodi come questo non è quindi da ridurre a un fenomeno ad personam, ma forse a un malessere che colpisce tutta la società statunitense, di cui la facilità del possesso delle armi è solo un corollario. Michael Moore in Bowling a Columbine, documentario sulla strage della Columbine, spiega la ragione del fatto che gli Usa hanno un numero di omicidi pro capite tre-quattro volte più alto dei paesi europei (cfr. gli articoli di peacereporter: art. 1 e art. 2) con la presenza e la facile disponibilità di armi nello stato, tesi avvalorata da uno studio della Harvard School of Public Health.Di certo la disponibilità di armi per tutti può aiutare a concretizzare la violenza che l’individuo comune può provare, ma probabilmente il problema va affrontato alla radice. Questi fenomeni sono accomunati da due elementi: avvengono in luoghi di formazione, e vengono compiuti da persone giovani. Se uno stato come gli Stati Uniti viene colpito al proprio interno, dai cittadini che costituiscono il suo futuro, e proprio nel luogo simbolo della loro crescita come cittadini, viene quindi da pensare che ci sia qualcosa che non va nei valori che in generale l’istruzione e i mass media statunitensi trasmettono alle proprie generazioni. Servirà quindi a poco la dichiarazione che il Presidente G.W. Bush farà alla nazione sulla vicenda, perchè è proprio dall’amministrazione statunitense e dalla propaganda che ne è legata che vengono legittimati, sotto forma di leggi comportamenti che in questi anni hanno segnato le vicende mondiali: si pensi ai numerosi “Act” che in nome della difesa dal terrorismo giustificano la limitazione dei diritti (come la privacy) di cittadini statunitensi, o la detenzione senza capi di accusa certi come a Guantanamo. Qui non è discussione il diritto civile al possesso di un’arma, sancito dalla Carta dei Diritti statunitense, ma l’abuso di diritto che caratterizza la politica interna ed estera statunitense. Se l’”american dream” che gli USA intendono esportare è fatto di guerra…e se tutto questo è giustificato per la difesa della Patria, non stupisce che siano proprio i figli di questa cultura ad esserne influenzati. Se violenza e prevaricazione sono mezzi legali per uno stato per la risoluzione dei conflitti, non stupisce che le armi siano viste dal cittadino un mezzo legittimo per affermare la propria volontà. Ed è forse anche in questa luce che si può leggere il rifiuto statunitense all’abolizione della pena di morte e alla regolazione del commercio di armi: la violenza armata non è retta solo dal potere politico della National Rifle Association e dal business economico che genera, ma affonda le sue radici anche in una cultura che considera le armi, o più in generale la violenza, un mezzo come un altro, se non il mezzo privilegiato, di confronto e scontro.

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