mercoledì 28 febbraio 2007

ECONOMIE DI DISTRUZIONE DI MASSA: alcune ragioni economiche del possibile attacco USA all'Iran

Indiscrezioni di questi ultimi giorni della stampa angloamericana (tra cui New Yorker, Indipendent) riferiscono che sono allo stato avanzato i preparativi per un attacco militare all’Iran. Un possibile intervento aereo sugli stabilimenti nucleari iraniani non sarebbe che uno sviluppo di quella “guerra fredda” che gli USA e Israele stanno conducendo ormai da tempo con l’Iran.Dalle provocazioni verbali iraniane sul nucleare e sull’esistenza di Israele, cui gli USA hanno risposto con sottili minacce e con la propaganda sulle intenzioni di un attacco nucleare iraniano, si è passati all’autorizzazione statunitense di uccidere agenti iraniani in Iraq. Tuttavia, al di là di questi screzi e di una potenzialità nucleare sottovalutata dagli stessi Israeliani, il reale movente di un possibile attacco all’Iran va cercato anche in motivazioni economiche.W. J. Clark, nel saggio del 2003 “Revisited: the real reason for the upcoming war with Iraq“, cita come ragione macroeconomica dell’attacco all’Iraq la volontà di riportare il dollaro come moneta di scambio, sperando di contrastare l’intenzione, espressa nel 2000 da paesi dell’OPEC come Iran, Iraq e Venezuela (che subì un colpo di stato nello stesso anno), di scambiare petrolio con l’euro; l’euro, infatti, oltre ad essere svalutato in maniera minore del dollaro, è la moneta della maggior parte dei paesi che scambiano petrolio con l’Iran. In questa direzione si inserisce inoltre l’intenzione del governo iraniano di aprire una borsa petrolifera alternativa alle due statunitensi. E’ chiaro che la riconversione petrolifera in euro intensificherebbe la crisi economica statunitense.Un secondo ordine di considerazioni sulle ragioni economiche alla base della scelta di attaccare l’Iran si fonda proprio sull’”economia di guerra” statunitense. Infatti, l’escalation terroristica in tutto il mondo che seguirebbe all’attacco iraniano non farebbe altro che gettare benzina sul fuoco della propaganda dell’amministrazione Bush, legittimando ulteriori mire militari e favorendo sempre di più il passaggio, come lo definisce il Los Angeles Times, dalla new economy a una war economy come quella statunitense.Paradossalmente gli introiti dell’industria bellica, oltre ad essere il movente degli USA, possono costituire un ostacolo all’attacco, dato da Russia e Cina. L’opposizione delle due nazioni alle sanzioni nei confronti dell’Iran si fonda infatti sui cospicui scambi energetici e militari che Russia e Cina intrattengono con l’Iran.Se dietro ai piani di guerra all’Iran, al di là molte altre ragioni geopolitiche, sta lo spettro di motivazioni economiche, è chiaro che il problema vada affrontato alla radice, non solo tagliando il legame tra rilancio dell’economia, occupazione e sviluppo bellico (si pensi alla propaganda dei “centinaia” di nuovi posti di lavoro che fornirebbe la base Dal Molin di Vicenza), ma anche con un opera continua di smilitarizzazione e riconversione a scopi civili di aree e fondi stanziati a spese belliche (come nella Finanziaria 2006).

"TU VUO' FA' L'IRANIANO..": i rapporti tra Italia e Iran tra pacifismo e interessi dell'ENI

Stamane A. Larijani, negoziatore iraniano sul nucleare, ha dichiarato di aver ricevuto da R. Prodi delle idee per una soluzione pacifica del contenzioso sul nucleare iraniano. Questo fatto può essere visto non solo come un ulteriore testimonianza dell'impegno pacifista dell'Italia in sede internazionale, ma anche dei buoni rapporti diplomatici che in questi mesi il governo Prodi ha tenuto con l'Iran.
Ma fermarsi a queste considerazioni sarebbe una lettura superficiale della questione. L'Italia infatti, come affermato dal premier francese De Villepin, ha conoscenze approfondite della repubblica islamica, che le consentono di sapere come gestire anche la spinosa questione del nucleare: una conoscenza approfondita data dal fatto che l'Italia costituisce "il primo partner commerciale" di Tehran.
L'Iran è il tra i primi cinque produttori mondiali di petrolio, che viene gestito, (analogamente a quanto avveniva in Iraq prima della svolta liberista attuata dal protettorato statunitense) su controllo statale; ciò comporta che gli affari dei privati stranieri in questo settore sono vincolati a ragioni politiche; l'Italia è molto attiva nell'import di greggio e gas e nell'export di macchinari industriali di cui la repubblica islamica necessita. A conferma degli ottimi rapporti commerciali tra i due paesi si pensi alla fondazione di una Camera di Commercio Italo-Iraniana nel 1999 e all'accordo, nel 2001, tra la Banca iraniana Bank Markazi e l'UBAE Arab Italian Bank, joint-venture arabo-italiana per il finanziamento delle importazioni iraniane dall'Italia.
Non si vuole qui entrare nel dettaglio dei numerosi interscambi economici tra Italia e Iran, che investono i settori più svariati, ma concentrarsi su un'azienda italiana che si è distinta in questi anni nell'impegno commerciale estero: l'ENI, basti pensare a Nassyria o a all'Iraq.
L'ENI è attiva in Iran in due giacimenti, uno petrolifero e uno a gas. Benito Li Vigni, ex dirigente ENI e autore del libro "Le guerre del petrolio", descrive così in un'intervista gli interessi dell'ENI in Iran: "siamo stati i primi ad avere concessioni Buy-Back . Questo tipo di contratto prevede che la società petrolifera che trova un giacimento, nel nostro caso sempre l'Eni, può tenere per sé il ricavato della vendita del greggio fino a che non copre i costi che ha sostenuto per la ricerca, e dopo può trattenere solo il 25 per cento dei ricavi, dando il restante 75 per cento allo Stato. In Iran vige il Buy-Back e il PSA è bandito", aggiungendo che in caso di attacco all'Iran "l'Italia perderà con tutta probabilità i suoi giacimenti".
Risulta ora più chiaro come l'impegno dell'attuale governo Prodi a stemperare i toni della crisi e le sanzioni all'Iran vada ben oltre il ripudio italiano della guerra espresso dall'articolo 11.
Ma c'è un'altro aspetto interessante della questione: l'Italia, non smettendo di intrattenere, tramite l'ENI, rapporti commerciali con Tehran, viola l'ILSA, l'Iran-Libya Sanction Act, reso legge dall'amministrazione Bush nel 2001, che imporrebbe sanzioni a chi contribuisse a sviluppare le risorse petrolifere iraniane e libiche, contribuendo indirettamente a favorirne tramite l'arricchimento, l'ascesa al nucleare.
L'impegno "pacifista" dell'Italia nella crisi iraniana si pone così in linea con Russia e Cina: tutti paesi che avrebbero da perdere molto economicamente nella prospettiva di un attacco all'Iran. Le ragioni economiche si pongono così come movente ma anche come potenziale deterrente sulle sorti di un conflitto.

---

venerdì 23 febbraio 2007

UN SECOLO D'ODIO: i soldati, carnefici e vittime della guerra

C'è un solo elemento che accomuna le parti in conflitto nella (o nelle) guerra civile iraquena: l'odio per l'esercito occupante. E alla luce di fatti come questi non c'è poi da stupirsi. Il sergente Paul Cortez, 24 anni, è stato condannato a 100 anni di reclusione per lo stupro di una ragazza di 14 anni e la strage della sua famiglia, padre, madre, e sorella di 7 anni. La confessione del sergente gli ha fatto evitare la condanna a morte, ottenendo inoltre, grazie al patteggiamento, la possibilità di libertà condizionata tra 10 anni. Le accuse di strage, stupro, violazione della propietà privata, cospirazione criminale, incendio doloso... gli sono state attribuite sulla base dei fatti del marzo 2006, quando Cortez e altri 4 soldati decisero di assalire la famiglia della ragazza, scelta per la presenza di un solo uomo. Dopo la violenza di gruppo, il corpo della ragazza viene bruciato per nasconderne la violenza e i familiari uccisi. Le altre condanne già stabilite ammontano a 90 anni per un altro compagno di Cortez e la radiazione dall'esercito per tutti i partecipanti alla strage.
Dei molti casi di violenza gratuita nei confronti della popolazione iraquena e afghana, in questi anni sono saliti alle cronache solo i più cruenti, per dovere di cronaca o forse più per vojeurismo di cronaca. Basti pensare alla profanazione di cadaveri e ostentazione di simboli del Terzo Reich da parte dei soldati tedeschi in Iraq, o la cremazione (vietata dall'Islam e dalle convenzioni di Ginevra) di talebani da parte dell'esercito USA, fino ai casi più noti di Abu Ghraib e Guantanamo. Tutta una costellazione di violazioni dei diritti umani che sono esiti "naturali" di quella zona franca del diritto, e dell'umanità, che è la guerra. Dall'innanuralità di un'umanità che uccide sè stessa non possono che seguire casi come questo, in cui la distinzione tra vittime e carnefici sfuma, fino a diventare nulla.
Soldati pescati in situazioni di disagio sociale ed economico, in cui la guerra rappresenta l'unica speranza concreta di occupazione, di rivalsa sociale, come mostra emblematicamente M. Moore in Fahrenheit 9/11: i figli dei senatori USA non vengono certo mandati al fronte. Soldati carnefici e a loro volta vittime, come mostrano l'impennata del tasso di suicidi dei marines in Iraq, di problemi mentali, e i casi crescenti di diserzione.

giovedì 22 febbraio 2007

B(ENI) IRAQUENI: appello online contro la svendita all'ENI del petrolio iraqueno

La storia inizia il 1° maggio del 2003, con l'insediamento alla guida dell'Iraq del proconsole statunitense Paul Bremer, dopo la deposizione di Saddam Hussein. Bremer costituisce la Coalition Provisional Authority (CPA, ora dissolta) che vara il nuovo assetto costituzionale iraqueno, composto tra l'altro di 100 ordinanze (orders) per la ricostruzione del sistema economico iraqueno e la gestione delle sue risorse.
Il leit motiv della nuova politica economica iraquena, come emerge dalle ordinanze, è la privatizzazione delle risorse di stato, non escluso il petrolio, che verrà prodotto e distribuito da multinazionali, sopratutto statunitensi, facendo quindi le veci della compagnia petrolifera di stato iraquena. Grazie al PSA, il Production sharing agreement, letteralmente "accordi di condivisione della produzione", il monopolio del greggio iraqueno sarà delle multinazionali estere per i prossimi 30 / 40 anni, con perdite da 2 a 7 volte il budget nazionale dell'Iraq. Ma c'è di più: a prender parte della svendita del petrolio iraqueno c'è l'ENI, ancora una volta all'apice delle cronache dopo il rapimento dei tecnici in Darfur e gli interessi a Nassirya.
E' per questo numerose ONG e associazioni, tra cui Un Ponte Per, CRBM, AMISNET (che avanza anche delle proposte su una gestione alternativa del petrolio iraqueno) chiedono di firmare la petizione online al ministro dell'economia Padoa Schioppa per chiedere che l'Italia, tramite l'ENI che è di proprietà statale per il 32%, si dissoci dal saccheggio delle risorse petrolifere iraquene.
Ancora una volta arriva la conferma che il sistema economico vigente, nel suo tentativo di monopolio delle risorse naturali, sta alla base dei conflitti mondiali, da cui si potrà uscire non solo con difficili manovre politiche (l'Italia ne è un esempio lampante), ma prima di tutto con la diffusione di un modello alternativo di sviluppo, come propone la Campagna per la riforma della Banca Mondiale.

mercoledì 21 febbraio 2007

CADUTA DI DIRITTO: bilancio di un anno di legislatura su diritti umani e civili

Le dimissioni di Romano Prodi, dopo il "cinque di picche" dei senatori sul voto in politica estera, autorizza a un bilancio di un anno di governo sul tema dei diritti umani e civili, indipendentemente da come si evolverà la situazione nelle prossime ore.
Le ingenti somme stanziate dalla Finanziaria per spese belliche e finanziamento delle missioni di "peacekeeping" in Iraq, Afghanistan e Libano hanno comportato tagli su numerosi settori della spesa pubblica, tra cui il taglio sulla cooperazione internazionale minacciato ma poi ritirato. Gli interessi economici e il prestigio internazionale sono stati il principale movente della politica estera, come dimostrano la spartizione da parte dell' ENI del petrolio iraqueno (si pensi anche alla drammatica vicenda dei tecnici rapiti in Darfur), la corsa con gli altri stati all'invio e al comando della missione UNIFIL in Libano, l'indifferenza per gli scopi militari dichiarati e l'impatto ambientale della base di Vicenza.
Rimanendo sul fronte ambientale, nonostante le recenti iniziative sul risparmio energetico e il fatto che le liberalizzazioni non abbiano toccato i beni di grande consumo come l'acqua, l'esecutivo è andato avanti sulla strada delle "grandi opere", come TAV e MOSE, di utilità discutibile e ma di danno ambientale non indifferente.
Non sono mancati tuttavia gli appelli a una soluzione politica e non militare dei recenti conflitti in corso nel mondo e una politica estera più coraggiosa della precedente nel criticare l'unilateralismo statunitense (come in occasione del bombardamento della Nigeria); importanti inoltre i viaggi diplomatici in Africa (l'Italia è l'unico stato a essersene interessato) e in India, con il richiamo del premier a Gandhi, e l'impegno contro la pena di morte.
Sul fronte dei diritti sono state perlomeno discusse le questioni delle unioni civili, dell'eutanasia e denunciate le violazioni del diritto nei C. P. T. per immigrati.
La caduta di un governo proprio su questioni riguardanti il tema della guerra, insieme alla decadenza di Blair a causa dell'invio delle truppe in Iraq e di Bush per il vietnam iraqueno, mostrano come la ricerca di una soluzione non militare ai problemi internazionali sia una necessità non solo legata ai diritti umani, ma anche nell'interesse della stabilità di ogni governo.

sabato 17 febbraio 2007

LA PACE PAZZA

"Un sabato antiamericano di paura", "100.000 matti in piazza", "Il pacifismo terrorizza Vicenza": sono questi i titoli di alcuni quotidiani a commento della grande manifestazione a Vicenza contro l'ampliamento della base militare, che costituisce, come si è già visto, una postazione per la prossima offensiva in Afghanistan e in Iraq annunciata dal congresso americano, oltre che causare un costo ambientale notevole. Eppure non si riesce ancora a uscire dalla logica della contrapposizione partitica, a capire che la pace è un valore che va oltre le definizioni, destra, sinistra, global, no global, americano, antiamericano. Il paradosso è che le parole che accompagnano una manifestazione contro la guerra, in cui un umanità uccide sè stessa, sono proprio termini bellici: "paura", "matti", "terrore", come se ad essere una pazzia, che mette paura e terrorizza, fosse la speranza di un futuro in cui i problemi si risolvano in altro modo, e non la guerra. Ancora più paradossali le parole di un capo di governo che per logiche di coalizione e reputazione internazionale da l'assenso a una base che, anche se usata per scopi dichiarati "civili", "abitativi", è pur sempre una base militare. E ciò stupisce ancora di più se si pensa che la stessa persona, qualche giorno prima, sulla tomba del Mahatma Gandhi, aveva dichiarato "Troppo spesso non abbiamo seguito il suo insegnamento", e elogiato Madre Teresa come "un esempio per tutti, un esempio di ciò di cui il mondo ha bisogno".
Una bandiera appesa a un balcone rappresenta la nostra condizione: la finestra da cui guardiamo il mondo può portare comunque un messaggio forte, che "occhio per occhio e il mondo diventa cieco" (M. K. Gandhi) .