domenica 31 dicembre 2006

SPEGNERE L'INDIFFERENZA: L'egemonia del diritto degli USA e la mediatizzazione di vita e morte

Se c'è un seguito ancora peggiore all'impiccagione dopo un processo farsa di un uomo è la mediatizzazione della sua morte. Sono due i dati che emergono da quest'ultima puntata del reality iraqueno. Il primo è che il diritto internazionale, come nasce dalle ceneri della 2° guerra mondiale, è definitivamente superato. Emblematiche a questo proposito sono le parole di Giuliana Sgrena, che in un editoriale apparso oggi afferma <<Bush ha definito l'esecuzione di Saddam una pietra miliare (...) di quale democrazia? Quella dell'occupazione, di Abu Ghraib, dei massacri quotidiani, dell'illegalità, dei rapimenti, degli stupri (...) o quella del processo a Saddam Hussein (...) Perchè non si è voluto un tribunale internazionale?>>. Si possono aggiungere le leggi che legittimano la tortura, Guantanamo e i fatti legati a Nicola Calipari e Abu Omar. La vicenda di Saddam conferma definitivamente che le Nazioni Unite (UN) sono le Nazioni Unite d'America (UNA). Indicativo il fatto che anche in Italia, e non da posizioni estremistiche, si inizi a parlare, come fa Vittorio Zucconi sull'editoriale odierno su Repubblica, di un uscita da questa situazione di egemonia del diritto, che non può che partire da un processo a George W. Bush, con i capi d'accusa già formulati da tempo negli USA, come discusso su Harpers Magazine di Febbraio e Marzo e su The Nation di Gennaio.
Il secondo punto è il ruolo dei media, sempre più influenti nella formazione dell'opinione pubblica, come si è visto nella propaganda sulla guerra in Iraq. O per rimanere in Italia, basti pensare alla pubblicazione del video integrale dell'impiccagione sul sito di Repubblica o la macraba dovizia di particolari del TG1. Tutte informazioni ininfluenti a livello informativo, utili solo all'audience. C'è un fatto ancora peggiore, ancora più contro natura dell'umanità che uccide, viola i diritti di sè stessa: è l'umanità voyeur, abituè della morte dei suoi simili. Indifferenza e abitudine sono le vere armi di distrazione di massa. Un gesto semplice per rifiutare questa logica: la campagna spegnere i televisori.
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English abstract
The farce of the process to Saddam Hussein and its homicide are only the last one of the violations of the international right of the USA. The United Nations do not exist more, replaced from the United Nations of America. But Still worse it is the fact that television, newspapers... speaks about death with the criterion of audience. To be against indifference, let's turn off television.

sabato 30 dicembre 2006

GIOCHI DI CORDE E FILI

Il 2006 termina con due scene emblematiche di morte. In entrambe all'assenza di pietà, perdono, pace, si affianca la presenza di troppe opinioni, repliche, esaltazioni e critiche. Di un audience mediatica che non distingue tra vita, morte e natiche. Eppure ancora una volta la scelta dovrebbe cadere sul silenzio dello stupore. Il restare senza parole di chi ha ancora la capacità di meravigliarsi, di non abituarsi. Gli anni passano, ma a giocare col salto della corda altrui sono sempre altri. E' questo che mostrano i due fatti delle ultime ore. E per chi è rimasto senza parole non resta che usare le immagini, ancora una volta, quelle di un Welby portato via dal suo letto da un Cristo in croce e le scene di altre corde, altri fili, quelli che legano le vite di soldati, civili, dittatori. E ancora una volta, i burattinai si contano sulle dita di una mano. Tutti col volto coperto, come il cappuccio del boia. O i prigionieri di Abu Ghraib.
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venerdì 29 dicembre 2006

2006: IMMAGINI dal "migliore dei mondi possibili"

I fatti che hanno costellato il 2006 mostrano da sè la loro tragicità, senza bisogno delle mille parole di chi ha sempre un opinione su tutto, di chi pensa che il mondo si divida in bianco e nero. E' per questo che Communitaction sceglie di descrivere il 2006 che sta per finire con delle immagini da tre belle rassegne fotografiche: "2006: The year in pictures"del NY Times, "The best photos of the year 2006" del Time e "The state of the world"dell'agenzia Reuters.
Vogliamo riportare anche noi un immagine. E' una scena del Candide, versione teatrale dell' opera di Voltaire, che ironizza, nelle disavventure del protagonista, l'idea di Leibniz del nostro come il migliore dei mondi possibili. Nelle scene della piece si vedono i capi di stato ballare ubriachi e felici, sopra barili di petrolio. L'opera, la cui esibizione è già avvenuta in Francia, non verrà proiettata in Italia, si puntualizza "non per ragioni politiche". Ma non importa, la scena mostra come stanno le cose e dice che stanno così: il mondo nelle mani di 5 uomini.
Buon anno a tutti

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mercoledì 27 dicembre 2006

CADERE SOPRA UNA POZZA D'OLIO #2: Lo sfruttamento petrolifero dell'Africa

Il rapimento in Nigeria dei tecnici italiani dell'ENI il 6 Dicembre e i recenti disordini in Somalia e Darfur, hanno riportato l'attenzione sulla situazione dell' Africa, continente caratterizzato dal paradosso per cui alla vastità e alla ricchezza delle risorse minerarie e petrolifere si accompagna tuttavia una situazione di estrema povertà, riassunta nella denominazione di "terzo mondo". Le "guerre dimenticate" in Africa, ovvero escluse dalla copertura mediatica, hanno tra le loro cause proprio il tentativo di monopolio delle risorse naturali. E' il caso delle Corporation internazionali che "giustificano il loro comportamento come legittima difesa, ma in realtà l´ipotesi del banditismo viene spesso usata per mascherare la natura politica delle aggressioni" come afferma Javier Gonzalez, responsabile di Amnesty Italia per l´Africa Occidentale. Il riferimento non è solo ai depistaggi mediatici di compagnie petrolifere come Agip e Eni, ma anche al caso di Ken Saro Wiwa scrittore e leader di un movimento politico non violento che fu impiccato dieci anni fa con otto attivisti con l'accusa di banditismo, imputazione tuttavia << voluta dalle multinazionali del petrolio a cui non andava giù la loro campagna contro al devastazione sociale e ambientale del delta del Niger>> come ribadisce Gonzalez. La ripartizione delle risorse naturali rimane una delle cause maggiori delle guerre, come affermato da Wangari Maathai. Il monopolio delle risorse naturali altrui alimenta non solo conflitti civili come si assiste in Africa, ma si configura come la nuova forma di colonialismo, nascosta sotto i propositi di missioni umanitarie o della guerra al terrorismo. A questo proposito sono necessari il rispetto degli standard internazionali dei diritti umani come chiede Amnesty, chiedendo di aderire all'appello per la crisi in Darfur, per le donne della Sierra Leone e i bambini del Congo, oltre che una collaborazione tra multinazionali e governi locali, affinchè la redistribuzione delle risorse possa contribuire al raggiungimento dei Millennium Development Goals delle Nazioni Unite entro il 2015. Sul sito della BBC la rassegna "Africa's year in pictures: 2006".
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Fonti e Info:

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English Abstract

The tragic news from Somalia, Darfur and Nigeria brings back the attention on the exploitation of the natural resources, especially of the oil, that it is cause of wars.

lunedì 18 dicembre 2006

EMIGRAZIONE O EMARGINAZIONE? La Giornata internazionale dei Migranti tra diritti e repressione

Oggi, 18 dicembre, è la Giornata internazionale dei Migranti. 20 anni fa, il 18 Dicembre 1990, fu votata dalle Nazioni Unite la Convenzione internazionale per la protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, ma la Convenzione è entrata in vigore solo nel 2003, quando si è raggiunto un numero di stati sufficiente per la ratifica. E' da osservare che tra questi stati non ve n'è nessuno che appartenga alla UE, e l'unico che appartenga all'Europa è la Bosnia, la cui esperienza di migrazione seguita alla guerra civile ha spinto a comprendere il problema. Questo fatto non stupisce in considerazione alla luce di due dati: il rapporto annuale su razzismo e xenofobia del European Monitoring Centre on Racism and Xenophobia (EUMC) che evidenzia come in Europa i casi di discriminazione e violenza razziale siano non solo numerosi, ma anche non documentati, per cui, come riportava un articolo dell'Unità sul tema "l'Europa è razzista e non lo sa"; inoltre, la difficoltà e lo "scarica barile" degli stati europei per firmare la Convenzione risiederebbe nella sua attenzione ai diritti dell'uomo in una prospettiva lata, che si riflette nella sua terminologia, in cui "nessun uomo viene definito clandestino e neppure irregolare. Qualcuno di noi potrebbe avere dei documenti che non sono considerati validi nello Stato in cui è ospitato" come afferma Manfred Bergmann, presidente del comitato antirazzista Durban Italia.
Rimane quindi un vuoto legislativo nella tutela dei diritti di persone che contribuiscono spesso in maniera determinante all'economia di uno stato, come ad esempio l'Italia, paese in cui, pur avendo conosciuto nel passato l'emigrazione, si registra il paradosso per cui senza immigrati sarebbe in recessione (secondo Luca Paolazzi su Il Sole 24 ore del 24 giugno 2001) ma il cui bisogno di lavoratori immigrati non trova risposta in una legge che ne regoli i flussi (articolo).
La recente protesta di Francesco Caruso e Haidi Giuliani, autoreclusosi nei CPT, i Centri di Permanenza Temporanea, per sollevare l'attenzione sul costante venir meno dei diritti in questi luoghi, non fa che confermare come accanto all'indispensabilità e alla necessità di tutelare il migrante come persona, sta la situazione per cui clandestino equivale a senza alcun diritto.
L'immigrazione oltre che una risorsa può certamente rivelarsi un problema, di sicurezza oltre che di integrazione. Ma i problemi vanno affrontati rintracciandone le cause ultime, non chiudendo una falla con muri contro l'immigrazione messicana al confine statunitense o con la repressione. All'apertura economica delle frontiere propria della globalizzazione, non può non accompagnarsi l'apertura delle frontiere da un punto di vista delle migrazioni, per disagio economico, per guerre, o mancanza di diritti: intervenire su queste cause è la soluzione dei disagi legati alle migrazioni.
Mettere muri per fermare le migrazioni o ghettizzare è come mettere una toppa sul tubo che perde: prima o poi la pressione dell'acqua la farà esplodere, come successo per le banlieues francesi poco tempo fa.
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Sui diritti dei migranti minori nei centri di detenzione, Amnesty International ha lanciato la campagna "Invisibili", per cui c'è un appello firmabile on-line per "chiedere alle istituzioni italiane di mettere fine alla detenzione generalizzata di bambini migranti e richiedenti asilo, di rispettare gli standard internazionali sui diritti umani, di approvare una legge organica sul diritto di asilo e di rendere trasparenti la gestione dei centri di detenzione e i dati statistici". Il 23-24 settembre si sono inoltre tenute le "Giornate dell'attivismo" Amnesty a sostegno della campagna.
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Info e fonti:
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English Abstract:
Today is the international migrant day: the migrations can be a resource but also a problem, to resolve in looking for their causes, that are poverty, wars... and not with repression and putting walls, like in the USA. The rights of the migrant go guaranteed like those of every person.

sabato 16 dicembre 2006

GLOBAL O NO GLOBAL? la globalizzazione economica tra sviluppo e povertà

Secondo il rapporto della Banca Mondiale la globalizzazione, nel suo aspetto economico di scambi internazionali di merci, è la vera soluzione dei problemi dei "terzi mondi". Gli esempi portati, si riferiscono a India e Cina. L'India, negli ultimi trent'anni, grazie al libero mercato, è passata dal 51% al 22% di numero di poveri; anche la Cina, da quando nel 2001 ha aderito al Wto, l'organizzazione mondiale del commercio, è diventata la quarta potenza economica mondiale, il terzo maggior esportatore del pianeta (sarà il primo nel 2010) e ha quasi raddoppiato il proprio prodotto interno lordo (da 1.300 miliardi di dollari ai 2.200 miliardi del 2005). E le previsioni sono altrettanto beneauguranti: nel 2006 la crescita economica dei paesi in via di sviluppo è quantificata per il 7%, nel 2007 e nel 2008 al 6%, più che doppia rispetto alla crescita economica dei Paesi ricchi, dove il Pil dovrebbe aumentare mediamente del 2,6%. L'aumento delle esportazioni è passato dal 14% di 20 anni fa al 40%, e per il 2030 è previsto al 65%. Nel 2030, il numero di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno si sarà dimezzato: da 1,1 miliardi scenderà a 550 milioni.
Tuttavia, l’Istituto mondiale per la ricerca sullo sviluppo economico dell’università dell'Onu ha portato dati diversi, quantificando lo squilibrio economico mondiale con un chiaro esempio: rappresentando tutta la popolazione mondiale attraverso un gruppo di dieci persone e riducendo a 100 dollari l’intera ricchezza mondiale, un solo individuo finirebbe per disporre di 99 dollari, mentre i restanti nove possiederebbero l’ultimo dollaro. Se Stati Uniti, Giappone ed Europa hanno infatti in mano l’84% di una ricchezza mondiale (gli USA il 34% della ricchezza, diviso per il suo 6% della popolazione mondiale), l'America Latina il 4%, la ricca Cina il 3% come l'Asia; fanalini di coda l'Africa con l' 1% e...sorpresa: l'altrettanto ricca India, con il suo 1%. In definitiva il 2% delle persone possiede più della metà di tutta la ricchezza e il 10% l’85% della ricchezza totale.
Il dato innovativo è che il parametro di valutazione non sono i redditi nazionali e individuali, le proprietà fisiche e finanziarie, cui vengono sottratti i debiti personali, che si può togliere con il credito: proprio la mancanza di un sistema assicurativo nei paesi in via di sviluppo, fatta eccezione per il microcredito, è una delle cause dell'impoverimento: secondo Sherman Katz, esperto di sviluppo economico, in un intervista per La Stampa, “l’incremento della ricchezza nell’era della globalizzazione favorisce coloro che già possiedono importanti capitali”. Questo spiega i dati ottimistici della Banca Mondiale, basati su paesi, come India e Cina, in cui i progressi sopracitati sono dovuti, come afferma De Belder di Oxfam, ai loro immensi mercati interni, mentre “i più piccoli fra i paesi in via di sviluppo devono guardare a strategie diverse”. Caso emblematico è l'Africa, in quanto paese in cui corruzione istituzionale e personale non qualificato comportano che non solo non possa fruire dei vantaggi del mercato globale riservati a India e Cina, ma anche ha portato a un maggiore impoverimento (vedi post). Per De Belder “non puoi avere la deregulation economica e al tempo stesso chiedere più regole per risolvere i problemi ambientali e sociali. Gli imprenditori locali in Africa non sono pronti a sostenere la concorrenza globale. Finché persisteranno le disuguaglianze, non potrà esserci un libero scambio benefico tra partner uguali”.
Queste testimonianze legano il problema dei progressi economici al tema dei diritti sociali e civili: una reale prospettiva di sviluppo non può che generarsi, al di là delle ricette economiche, siano esse liberiste o meno, senza una situazione di diritti e uguaglianza. In una parola, di pace.
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Fonti:

lunedì 11 dicembre 2006

COMMERCIO EQUO E...SNOB? Le critiche dell' Economist al commercio equo e solidale

Il commercio equo solidale e il conferimento del premio Nobel a Mohamad Yunus, l'inventore del microcredito, un altro modello economico di successo alternativo al sistema vigente, sono stati accomunati da un medesimo accusatore: l'Economist. La prestigiosa voce dell'economia neoliberista, dopo aver sollevato obiezioni all'annuncio del Nobel a Yunus, si schiera ora contro il commercio equo solidale: non è casuale che la critica venga posta in un periodo di maggiori consumi come quello natalizio, in cui si moltiplicano gli appelli a regali equo-solidali e nemmeno che la notizia sia stata diffusa in Italia da quotidiani fedeli alla linea dell'Economist, come Il Foglio e Il Giornale.
L'articolo pubblicato, constatando la crescita del "business" equo solidale, afferma che al contrario questo danneggerebbe uomo e ambiente, contrariamente al fine dichiarato di sostegno e sviluppo sostenibile.
Il commercio equo e solidale, ha infatti registrato una crescita nel 2005 del 37 %, raggiungendo 1,4 miliardi di dollari, tenendo anche conto del fatto che i prodotti sono venduti a un prezzo superiore a quello di mercato; cinque sono le obiezioni che solleva l’Economist:
  1. l’aumento dei prezzi di beni comuni, ad esempio il caffè, ne incoraggia la coltivazione, contribuendo così ad abbassare ulteriormente i prezzi ma escludendo gli agricoltori che non producono equo solidale;
  2. la certificazione equa e solidale verrebbe concessa sulla base di "pregiudizi politici", favorendo le cooperative ed escludendo le imprese famigliari;
  3. inoltre, l’esistenza di un prezzo minimo bloccherebbe la competizione commerciale;
  4. solo il 10 per cento della rendita equa e solidale, per l'Economist, andrebbe ai produttori, mentre il resto rimarrebbe a distributori e rivenditori;
  5. infine l'agricoltura biologica (spesso non biologica per l'Economist), danneggerebbe l'ambiente: alla riduzione delle distanze corrisponderebbe infatti un aumento dei viaggi e di conseguenza delle emissioni.

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Non è quindi, secondo l'Economist, il mutamento di sistema economico il modo per affrontare i problemi globali bensì “I veri cambiamenti richiedono decisioni dei governi" annoverando tra le possibili misure una carbon tax globale, la riforma del commercio internazionale, l’abolizione delle tariffe e dei sussidi all’agricoltura, con riferimento critico particolare alla politica agricola comune (Pac) europea. La posizione dell'Economist, giustamente ribadisce la responsabilità politica, come sottolineato più volte, sul mancato raggiungimento degli obiettivi cui tendono le iniziative globali per lo sviluppo dei paesi poveri; ma sottolineando l'inefficenza di un altra economia, come quella equo solidale, fa rientrare della finestra quella liberista: nonostante si calcoli che una maggiore libertà di scambio potrebbe far crescere del 5% il Pil africano e che quindi solo il modello liberista possa risollevare le sorti dei terzi mondi, queste stesse politiche, promosse dalla Banca Mondiale, in questi anni hanno mostrato il contrario (post).

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Carlo Maria Cipolla, nella sua discussione dell'argomento su Il Foglio del 9 Dicembre, scomoda anche la sociologia, individuando nello "snobismo politico e vezzo da ricchi" di chi acquista equo solidale la categoria antropologica di chi "causa un danno agli altri subendo egli stesso una perdita". E accanto a profili del consumatore equo e alla conseguente ironia e sufficenza, si avanzano le dietrologie, come quella di Eleonora Barbieri, che su Il Giornale del 9 Dicembre afferma che "quella dell'ambientalismo, in realtà, è solo una maschera: dietro, c'è il solito protezionismo vecchio stile". L'editoriale odierno di Repubblica di Edmondo Berselli, commentando il popolo dei fischi ricevuti al Motorshow dal Presidente del Consiglio Romano Prodi, parla di una parte di società "insensibile ai valori della solidarietà e dei diritti [...] congerie di individualismo insofferente delle regole, di consumismo immediato e irriflesso", non a caso fischi per una finanziaria e non a caso al Motorshow, luogo di "desideri indotti, ma reali", quelli di macchine costosissime, la cui ammirazione costa 25 euro del biglietto d'entrata.

Non è la prima volta che il commercio equo solidale viene messo sotto accusa: il 9 Settembre è stata la volta del Financial Times, cui è seguita la risposta di Fairtrade. Ma queste critiche, data la loro provenienza, e la scarsa fondatezza, hanno più il sapore di accuse ideologiche, a un fenomeno che proprio per la sua crescita e fecondità rappresenta un modello altro e di successo al sistema economico vigente.

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Fonti:

lunedì 4 dicembre 2006

L'ALTRA AMERICA: le nuove forme di "democrazia radicale" in America Latina

In queste ore si moltiplicano le notizie dall' America Latina: il venir meno, a causa delle loro gravi condizioni, di due simboli del passato, l'ex dittatore cileno Pinochet e il lider maximo di Cuba Castro, si affiancano a una nuova tendenza politica che sta sorgendo in questi anni. La rielezione odierna, a larga maggioranza, del venezuelano Hugo Chavez, consolida la tendenza politica socialista già vista con le vittorie di Rafael Correa in Ecuador, Luiz Inacio Lula da Silva in Brasile, Daniel Ortega in Nicaragua, e la presidentessa cilena Michelle Bachelet, oltre che nei governi di Cuba, Uruguay e Argentina. Tutte "nuove figure di democrazia radicale e modelli di gestione collettiva dei beni comuni", come afferma Antonio Negri in "GlobAL: Biopotere e lotte in America Latina".
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Correa, presidente dell'Ecuador, all'indomani della vittoria, ha affermato che verrà mantenuto il dollaro come moneta di stato ma che "oggi meno che mai firmerei un Trattato di libero commercio con gli Usa perché distruggerebbe la nostra agricoltura, la nostra economia". Le risorse per i previsti investimenti economici e sociali verranno da un diverso uso delle risorse energetiche - l'Ecuador è il 5° produttore di petrolio d'America latina - e da una possibile rinegoziazione del debito estero (pari a 10.000 milioni di dollari) con un possibile rientro dell'Ecuador nell'Opec. Correa inoltre ha affermato che non rinnoverà con gli Usa l’accordo sulla base militare di Manta e in generale postazioni militari straniere sulla propria terra.
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La cilena Bachelet si impegna per ridurre le differenze economiche tra ricchi e poveri e per far entrare le fasce deboli della popolazione nel processo di modernizzazione del Cile, infatti "si possono migliorare le condizioni di vita dei cileni senza per questo rallentare lo sviluppo del nostro sistema produttivo". La disuguaglianza tra uomo e donna si ridurrà, elevando la presenza femminile nel governo, con la creazione di maggiori posti di lavoro, specialmente per i giovani, e sulla riforma del welfare in senso solidaristico, con nuove misure a favore delle donne nel mondo del lavoro, l'aumento delle pensioni minime, cure ospedaliere gratuite per gli ultra sessantenni, 20 mila nuovi posti negli asili nido. E' prevista inoltre la creazione di un ministero dell'Ambiente e l'abolizione della leva obbligatoria.
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Per la prima volta nell’era moderna il Venezuela ha il 100% di alfabetizzazione. Grazie a Hugo Chavez (a sinistra nella foto con Evo Morales) il Venezuela è diventato il più grande produttore di petrolio che ne impiega le entrate per aiutare le classi più povere. Quando fu eletto per la prima volta, nel 1998, Chavez modificò la Costituzione per de-centralizzare il potere, eliminarne la corruzione e assegnarlo al popolo, da cui era escluso: “Gli indigeni – afferma la nuova costituzione – hanno il diritto di mantenere le proprie pratiche economiche, basate sulla reciprocità, sullo scambio e sulla solidarietà". E' stato inoltre avviato un programma per sconfiggere la povertà delle madri single. Secondo la costituzione, le donne hanno il diritto di essere pagate per il proprio lavoro e possono ottenere prestiti da una banca speciale. Da giugno, le casalinghe senza reddito possono ricevere uno stipendio di circa 120 dollari. Una legge del 2001 abolisce inoltre il latifondo redistribuendo le terre a quel 60% di popolazione che ne godeva solo dell'1%. Fresco di nomina, Chavez ha in programma cure mediche per tutti, case al posto delle baracche, ragazzi all'università con stipendio minimo, nuove città che vuotino le favelas.
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Dopo la nazionalizzazione di gas e petrolio, ai fini di mettere fine al "saccheggio delle risorse naturali, che dura da 500 anni" anche il bolivano Evo Morales ha avviato la ridistribuzione delle terre ai contadini, abolendo il latifondo. Saranno circa 2.5 milioni le persone che beneficeranno di questa nuova legge con 14 milioni di ettari di territorio da restituire alla popolazioni indigene.
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In un documento statunitense, la "Doctrine for asymmetric war against Venezuela" dell'Ottobre del 2005, il Venezuela di Chavez è visto come "la peggior minaccia da Unione Sovietica e comunismo", come testimoniano i passati tentativi di golpe appoggiati dagli Stati Uniti. Una minaccia non certo militare, ma perchè questi esempi costituiscono modelli alternativi, e di successo, a quello statunitense.
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Info:

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English Version (Abstract)

The socialist governments who rise in South America, for example that one of Correa in Ecuador, Bachelet in Chile, Morales in Bolivia and Chavez in Venezuela, propose a new political, alternative model to that one of the USA, with more rights and richness for the poor ones.

sabato 2 dicembre 2006

2/12: DAL MOLIN...ALLA GUERRA? la manifestazione vicentina contro la base militare USA

Oggi si terrà una manifestazione a Vicenza, sicuramente oscurata da quella di Roma e Palermo dell'opposizione di governo contro la Finanziaria, contro l'edificazione della più grande base Usa in Europa presso l'aeroporto "Dal Molin"(e la seconda in città oltre alla Ederle) con adesioni di gruppi politici, sindacali, cattolici, ma prima di tutto di cittadini, vicentini, italiani e statunitensi, oltre all'appoggio di Noam Chomsky e di Emergency. La protesta, oltre che per ragioni ideali di contrarietà alla militarizzazione del nostro paese, contraria all'impegno per la pace sancito dall'articolo 11 della costituzione, trova anche altre motivazioni.
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Come rilevato dagli studi effettuati dall'Ing. Vivian e dal Centro di studi di Bonn sulla Conversione in aree militari, la costruzione della base comporterebbe un impatto ambientale ed economico notevole sulla città, con consumi pari a "30.000 vicentini per l'acqua, 5.500 per il gas naturale, 26.000 per l'energia elettrica", tenendo conto della non sottoscrizione da parte degli USA del protocollo di Kyoto, che viene applicata alle basi, dove vige la legislazione statunitense. A questo si aggiungono le conseguenze economiche causate dalla diminuzione dell'insediamento vicino alla zona militare -per paura di attentati (l'attenzione per la vicenda della televisione Al-Arabiya ne è la conferma) e per l'inquinamento- con la conseguente svalutazione del 30% degli immobili, che significa meno entrate per il Comune, meno turismo, meno occupazione.
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Ma quel cui si assiste dietro il progetto è la corsa agli appalti: tra le 22 aziende finora in lista, aziende italiane e non, immobiliari e di altri ambiti, spicca quello di Telecom Italia. Le dichiarazioni beneauguranti sui fini unicamente "abitativi" dell'area, ricalcano quella "politica del sorriso" (di cui parla Andrea Licata dell'Università di Trieste), che nulla tuttavia esclude riguardo all'utilizzo della base, in funzione bellica, per il futuro, come confermano le dichiarazioni di un generale statunitense e le fonti statunitensi: il "Dal Molin" fa parte di un progetto europeo ai fini dell'invio di maggiori truppe in Iraq e Afghanistan.
La corsa agli appalti, e le ingenti somme stanziate dal Congresso americano per la costruzione dell'area, conferma come la guerra e tutto ciò che vi è legato, sia un fattore essenziale di possibilità e rilancio economico, la cui risposta non può che essere, come suggerisce Licata, quella di farsi sentire con azioni non violente di massa, come la manifestazione, il referendum previsto per ottobre e il boicottaggio economico e politico.
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Info:

venerdì 1 dicembre 2006

CADERE SOPRA UNA POZZA D'OLIO: la missione di peacekeeping a Nassirya e gli interessi dell' ENI

Si è conclusa oggi, con il gesto di rito dell'ammaiana bandiera, la missione di peacekeeping italiana in Iraq, località Nassirya. Nella giornata del 12 dicembre 2003, un attentato colpisce la base italiana, uccidendo, tra gli altri, 19 italiani, tra carabinieri, militari dell'esercito e due civili, un regista e un cooperante. Tre anni dopo, il 27 aprile 2006, è la volta di altri tre militari, dopo che il loro convoglio passa su una mina. Non passano 2 mesi che il 5 giugno 2006 per un altro attentato, nei pressi di Nassirya. La missione "Antica Babilonia" totalizza così tre anni di durata e 38 vittime, sullo sfondo della retorica bipartisan della politica, che è riuscita ad oscurare i fini nobili della manifestazione di pace per la Palestina del 18 novembre ma, sopratutto, non è riuscita a garantire il rispetto, fatto di silenzio, che si deve ai familiari delle vittime, che ora chiedono "verità sull'accaduto". Il metallo delle targhe ai loro caduti basta poco, tanto meno le piazze intitolate a loro nome in tutta Italia, come dimostrano le loro parole nel terzo anniversario del primo attentato, "cerco di trovare una giustificazione per quello che è successo ma non riesco a trovarla". Una giustificazione, per capire come si possa morire in una missione di pace.
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"Antica Babilonia": un nome non casuale, perchè l'obiettivo dichiarato della missione italiana era anche quello di salvaguardare le risorse archeologiche del paese, da parte di un paese, come l'Italia, talmente impegnato dall'iniziativa dal sacrificare i fondi dell' 8 per mille destinato al proprio patrimonio archeologico per destinarlo all'Iraq (vedi post). Ma si sa, la polvere da sparo puzza di zolfo...ma anche un pò di benzina. Non un pieno della punto, ma 5 miliardi di barili, dei 400 presenti sul territorio iraqueno . E' questa la quantità di petrolio che, in base a un accordo tra Saddam Hussein e l'Eni, risalente al 1997, interrottosi per la richiesta di Saddam Hussein della fine dell'embargo come contropartita, doveva essere sfruttata nella zona di Nassirya. La vastità dei giacimenti petroliferi iraqueni è emersa da uno studio commissionato dal ministero per le Attività produttive, che, sei mesi prima dell'inizio della guerra in Iraq, parlava di un "affare di 300 miliardi di dollari". E cosi' si scopre, grazie a un inchiesta di Rainews 24 del 13 maggio 2005, che l'Italia ha innovato il concetto di peacekeeping, includendovi la scorta di barili di petrolio e il sorvegliamento di centrali petrolifere, per conto dell'Eni, con la complicità del precedente governo, come esplicitamente dichiarato a Libero, il 21 gennaio 2005, da parte dell'allora Presidente della commissione Esteri Gustavo Selva: “Basta con l’ipocrisia dell’intervento umanitario (…) Abbiamo dovuto mascherare Antica Babilonia come operazione umanitaria perché altrimenti dal Colle non sarebbe mai arrivato il via libera”. L'attentato di Nassirya, come ha scritto il corrispondente del Sole24 Ore Claudio Gatti, non era diretto contro il nostro contingente militare, ma contro l'Eni, proprietaria della raffineria presso cui la prima base militare italiana era ubicata.
L'inchiesta ha dato forse la giusificazione ai familiari dei caduti, nero su bianco, con tanto di contratto. Contratto in forse, dato che l'occupazione dell'Iraq e la caduta di Saddam Hussein hanno fatto sì che le tre grandi concessioni all'Eni siano congelate.
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COSA POSSIAMO FARE:
  • guardate il reportage, è bello, impiega poco del vostro tempo e ci riguarda tutti, in quanto Italiani. Segnalo anche un altro reportage di rainews24, sulla guerra iraquena, intitolato "Falluja, la strage nascosta", sul bombardamento al fosforo a Falluja, di cui è in atto una sottoscrizione affinchè sia trasmesso in prima serata, da firmare on line.
Fonti: